Cari lettori,
in questa puntata della rubrica “antropologia e pensiero libertario”
pubblichiamo un lungo contributo dello scrittore di origine argentina che da
molti anni vive in Bolivia, Franco Sampietro.
Franco Sampietro ha una storia di vita veramente appassionante; si laurea in lettere a Cordoba (Argentina), si paga gli studi con incontri di boxe, decide giovane di andare a vivere in Bolivia, attratto dal movimento ecologista e indigenista boliviano. Scrive poesie, libri, fonda una casa editrice e traduce testi fondamentali di critica libertaria, ma non solo; nel giro di pochi anni diventa un giornalista delle maggiori testate boliviane. I suoi articoli taglienti in difesa della lotta indigena lo portano in carcere e una volta fuori è costretto a scappare in Europa, dove ci conosciamo, entrambi lavoratori in una cucina di un ristorante di Cadiz (Spagna).
Con la vittoria di Evo Morales, torna in Bolivia; spera nel sogno del cambiamento anche se da libertario è scettico sulle possibilità calate dall'alto, ma torna per vedere con i suoi occhi cosa succede nel suo paese di elezione.
Questo suo contributo che pubblichiamo ci racconta le contraddizioni del MAS (Movimiento al Socialismo) e di Evo Morales, ci racconta la sconfitta di uno di quei movimenti bolivariani che troppo spesso qui in occidente vengono supportati acriticamente da una sinistra troppo distratta o in malafede.
Franco Sampietro ha una storia di vita veramente appassionante; si laurea in lettere a Cordoba (Argentina), si paga gli studi con incontri di boxe, decide giovane di andare a vivere in Bolivia, attratto dal movimento ecologista e indigenista boliviano. Scrive poesie, libri, fonda una casa editrice e traduce testi fondamentali di critica libertaria, ma non solo; nel giro di pochi anni diventa un giornalista delle maggiori testate boliviane. I suoi articoli taglienti in difesa della lotta indigena lo portano in carcere e una volta fuori è costretto a scappare in Europa, dove ci conosciamo, entrambi lavoratori in una cucina di un ristorante di Cadiz (Spagna).
Con la vittoria di Evo Morales, torna in Bolivia; spera nel sogno del cambiamento anche se da libertario è scettico sulle possibilità calate dall'alto, ma torna per vedere con i suoi occhi cosa succede nel suo paese di elezione.
Questo suo contributo che pubblichiamo ci racconta le contraddizioni del MAS (Movimiento al Socialismo) e di Evo Morales, ci racconta la sconfitta di uno di quei movimenti bolivariani che troppo spesso qui in occidente vengono supportati acriticamente da una sinistra troppo distratta o in malafede.
A.S.
FRANCO SAMPIETRO
Perché il
presidente Evo si ostina a voler restare aggrappato a un discorso che i fatti
smentiscono punto per punto e che, come ha capito, sappiamo essere falso?
Perché alle Nazioni Unite ruggisce “Pachamama o muerte!” (Madre Terra o morte!)
e il giorno dopo nel paese approva il progetto del Rally Dakar – Uyuni (deserto
di sale nell'altopiano andino), il sito più bello della Bolivia? Perché tutto
ciò ha a che vedere con un cambiamento nella strategia politica a partire dalla
sconfitta elettorale dello scorso febbraio. Il caso del Pachamamismo è uno
degli aspetti più grotteschi di questa virata.
Nonostante il
neoliberismo abbia perso quasi del tutto la sua legittimità politica, in
Bolivia esso sopravvive vigoroso, tanto nei piani alti quanto in quelli bassi
del sistema. Ai piani alti attraverso una sovranità finanziarizzata che ha come
suo principale punto di appoggio l'inserimento nel mercato mondiale (e che si
esprime nelle attività di estrazione come fonte privilegiata di risorse); ai
piani bassi si intravede nelle attività economiche popolari, che negoziano
benefici in un contesto in cui si mescolano forme nuove di sfruttamento e di
conflittualità. In pratica la razionalità neoliberista si è diffusa ed è
cambiata, degenerando e trasformandosi in combinazioni inedite che non hanno
nulla a che vedere con la sinistra.
È come se la
Bolivia avesse vissuto, fino circa alla fine del 2003, un processo
pre-rivoluzionario che si è fermato alle premesse. Nei fatti, la demagogia
verbale del Movimiento al Socialismo (MAS) - che in quel momento storico è
riuscito a capitalizzare il malcontento popolare - ha riempito il suo populismo
(che è un qualcosa di distinto dal socialismo) di una serie di aforismi che
vengono ripetuti quotidianamente, ma che sono totalmente falsi. Grazie a essi,
oggi vendono l'ombra di qualcosa che ancora siamo in attesa di vedere in
concreto; e allo stesso tempo il suo linguaggio diventa sempre più
arzigogolato, mentre le azioni concrete ben esemplificano la virata verso
destra. A questo proposito è così imponente l'abuso di una terminologia
elementare presa dalla sinistra che la gente non ne comprende più il significato.
Invece, gli strumentalizzatori di ogni epoca sanno benissimo che, a forza di
battere su un punto, questo si impone alla realtà. O, per dirla con le parole
di José Pablo Feinmann: “Uno dei segni del trionfo del potere è farci credere
che l'ordine stabilito sia naturale”. (La filosofía y el barro de la
historia)
Per entrare più
nel concreto: il MAS fa un utilizzo spurio del linguaggio della sinistra, con
l'obiettivo di camuffare una gestione apertamente neoliberista e, come
corollario, nella pratica le cose assumono il significato esattamente opposto a
quello linguisticamente originale. Come nel famoso romanzo di Orwell, 1984, il
MAS ha creato una specie di neo-lingua politica il cui utilizzo abbiamo già da
un po' di tempo imparato a decifrare.
Per esempio, uno
dei pilastri, ma non l'unico, della sua narrazione sinistroide è quello del
“processo di decolonizzazione”. Ma come si fa a essere decolonizzatori quando
il modello economico si fonda alla base, per non dire nella quasi totalità,
sulle attività estrattive? E cioè, sulla vendita di materie prime ai paesi
avanzati (quasi il 70% del PIL interno proviene dall'esportazione di gas e
quasi il 25% da quella di minerali e sodio alla Cina), in uno schema che
ricalca quello che esisteva all'epoca del colonialismo ufficiale, quindi prima
della seconda guerra mondiale. Di conseguenza, la Bolivia è un paese totalmente
dipendente dalle metropoli (e continuerà ad esserlo, anche perché è il paese
latinoamericano che investe meno in educazione, scienze e tecnologia). L'unica
differenza sta nelle percentuali, ora (a detta del governo) più favorevoli alla
Bolivia. Ma il modello continua a essere lo stesso di sempre, anzi si è
addirittura approfondito: l'estrazione di materie prime – senza creare di pari
passo una industria tecnologica in grado di trasformarle nel paese – e la loro
vendita ai paesi capaci di lavorarle. Si è arrivati all'artificio di creare un
Ministero per la decolonizzazione, che si dedica a cambiare i nomi delle piazze
e dei luoghi pubblici, affinché la gente pensi che questo tocco di maquillage ci
renda meno colonizzati, mentre le multinazionali continuano a portarsi via le
nostre risorse naturali.
Nemici dell'ecologia
All'ombra di
tutto questo è sorto tutto il discorso del Pachamamismo, che da questo punto di
vista possiamo definire come una delle “tonterie” più malintenzionate del
governo. Infatti il presidente si presenta come difensore della Madre Terra,
anche da un punto di vista mistico (cioè da un punto di vista affettivo, non
solo politico), e tuttavia nella pratica è un predatore e contaminatore come
gli Stati Uniti o qualunque governo cannibale di destra. Scrive una
Costituzione che mette per iscritto i diritti della Pachamama, ma allo stesso
tempo questa è figlia della neo-lingua: fa esattamente il contrario di quel che
predica. Diffondono dichiarazioni magniloquenti, e persino rivoluzionarie, alle
Nazioni Unite, e in casa depredano. Gli stessi che organizzano i congressi
ecologisti sono i principali nemici dell'ecologia.
Così, tra gli
altri spropositi, il governo di Evo decide con la forza la costruzione di una
superstrada nel mezzo di un parco nazionale che è pure territorio indigeno,
reprimendo gli stessi abitanti del luogo che non vogliono essere invasi.
Inaugura la costruzione di un impianto per la produzione di energia atomica: la
prima della Bolivia, superando in questo anche i paesi più capitalisti, la cui
tendenza invece è a ridurle. Decreta l'esplorazione e lo sfruttamento degli
idrocarburi in aree protette, in modo che le multinazionali possano portarsi
via ancora più risorse. Autorizza unilateralmente la deforestazione di
gigantesche aree boschive per l'uso di sementi transgeniche, che come si sa,
sono accompagnate da pesticidi altamente tossici. Approva lo sfruttamento delle
riserve di litio più grandi del pianeta: aggiudicate a contratti stranieri, ovviamente.
Indebolisce, di sua volontà, una serie di decreti supremi che tentavano di
ridurre l'impatto ambientale generato dalle imprese minerarie, permettendo in
questo modo la contaminazione delle acque e del suolo fino a renderle
inservibili per qualunque forma di vita, come successo con il fiume Huanuni e
il lago Poopò.
Una simile prassi
si deve davvero all'amore per la Pachamama? E per questo il vicepresidente ha
coniato un concetto, per definire gli ecologisti boliviani, che si attaglia più
a un politico dell'ultradestra: “trotskisti verdi”.
Qual è di
conseguenza il concetto di Pachamama del presidente Morales? Lo stesso che
avevano i presidenti precedenti, di destra: Sánchez de Lozada, Tuto Quiroga o
Bánzer; e cioè una cosa che è lì per essere utilizzata, venduta e spremuta a
piacimento. O addirittura peggio: un'entità talmente reificata da poter essere
presa in giro e maneggiata a piacimento, dal momento che a parole la si
difende, e nei fatti la si distrugge. [...]
È risaputo che il
governo può contare su un'immagine all'estero idealizzata e romantica fino
all'assurdità, ripetuta in ogni occasione internazionale a cui partecipa la
Bolivia. Un'immagine di successo non solo a livello economico e politico, ma
molto più: quasi mistica o olistica. Un'immagine ridicola che chiaramente si
basa sui personaggi che la neo-lingua ha tentato di creare fin dall'inizio.
Anzitutto il movimento: in teoria di base, democratico, socialista,
anticolonialista e diretto da indigeni. In secondo luogo, il presidente: una specie
di Mandela o Gandhi nativo, lottatore, nobile, innocente, esotico, idealista e
armato delle migliori intenzioni. E terzo, il vice presidente: uno che pare un
Lenin sui generis, ma vivo e vegeto, che presenta se stesso con un'aura di
superiorità morale rispetto al resto dei mortali (dobbiamo supporre per il suo
passato nella guerriglia?). Sfiora persino il realismo magico, avendo nominato
come cancelliere una specie di sciamano, quel brillante personaggio di
Choquehuanca, che si vanta di non aver bisogno di leggere libri dal momento che
“acquisisco la mia saggezza leggendo le rughe di un uomo anziano” e che ha
raccomandato di alimentare i neonati con foglie di coca anziché con latte.
In silenzio e
a colpi di decreto
Del resto, in un
mondo interessato e affamato di miti, un emulo di Rousseau (che veste lui
stesso la parte del “buon selvaggio”) può per un certo tempo diventare di moda,
per quanto i fatti lo smentiscano, dimostrando ancora una volta come sia
possibile convincere la gente che il vero è falso e il falso è vero. E
chiamarsi “governo socialista” mentre in silenzio e a colpi di decreto
privatizza, come accaduto con Banco Prodem, Grabetal, Ferroviaria Andina y Ferrovie
dell'Ovest, vendute a privati, tra i quali diversi funzionari venezuelani. Per
questo non stupisce che il filosofo sloveno Slavoj Zizek (che con un gesto
molto snob la vicepresidenza aveva portato in Bolivia nel 2012 pubblicando due
opere) rifletta, nel suo libro Chiedere l'impossibile, del 2014,
che il discorso del presidente Evo sia nient'altro che una sfilza di frivole
stupidaggini.
E tuttavia,
nonostante tutto questo e alla massima buona volontà nell'interpretare i fatti,
il momento che segna il passaggio definitivo del MAS da partito nella teoria
diverso, ma in realtà tradizionale, lo abbiamo visto solo alle ultime elezioni
del 22 febbraio, quando si è tenuto il referendum per modificare la
Costituzione in modo da permettere a questo presidente così “democratico” di
presentarsi niente meno che per la quarta volta come candidato. È stato come se
il MAS, ringalluzzito o accecato dall'ingordigia di tanto potere, avesse visto
cadere alla fine la maschera di questa presunta superiorità originaria, che brandisce
come uno scudo, per poter finalmente “non preoccuparsi nemmeno delle forme”,
per dirla come nella canzone di Carlos Puebla e lasciarsi andare alla
“politicheria” spicciola di sempre. È il momento in cui ha iniziato ad
applicare tutti i trucchi, i marchingegni e le possibili miserie (comprese
quelle immorali e illegali) per vincere nelle competizioni elettorali, che
infine ha perso.
Possiamo
affermare che a partire dalla sconfitta dello scorso febbraio la strategia del
MAS è totalmente cambiata. Non cerca più di convincere, argomentando o facendo
ricorso al ragionamento, ma agisce attraverso una specie di bullismo politico,
un qualcosa che potremmo definire un'attitudine da energumeno: la
sopraffazione. Da un lato, sapendo che gli intellettuali lo criticano e che
nelle città quasi più nessuno lo appoggia, come mostrano le statistiche, ha
deciso di appoggiarsi totalmente al mondo contadino. In questo modo può
presentarsi nelle campagne, trattare gli indigeni come bambini e continuare a
dire alla gente più ignorante di essere un governo anticapitalista,
antimperialista e perseguitato dalla destra. E nel caso delle città, prendersi
gioco di noi con discorsi a cui nessuno più crede, che paventano un golpe, che
minacciano tutti i dissidenti, che ci hanno annoiato e saziato fino alla
nausea, e di cui è consapevole anche il governo: ma a lui non importa, già sa
che non può più contare su di noi.
Sfortunatamente,
la Bolivia è discepola di Parmenide: “È e non può non essere”, e non cambia a
seconda del governo o del sistema politico: la sua impronta culturale, la sua
essenza profonda, riequilibra le deviazioni. Dunque, ancora una volta abbiamo
al potere un individuo che ha reso la sua patologia un giudizio politico: un
leader carismatico e demagogo che si basa su un'adesione emotiva, non sulle
idee. E in quanto al suo discorso in difesa della Pachamama, è solo una
logorroica trappola retorica che potremmo commentare con la famosa citazione di
Shakespeare (usata poi da Karl Marx per definire i capitalisti): “La via
dell'inferno è lastricata dalle buone intenzioni”.
traduzione di Angela Ferretti
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De RIVISTA ANARCHICA, anno 46, n. 409, estate 2016
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